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Libellule al tempo delle camicie nere

Libellule al tempo delle camicie nere

Era lì alla sua scrivania. La piccola barretta che lampeggiava sul foglio bianco di word dove ancora non aveva scritto niente. Era stupito, in genere le parole gli venivano senza nemmeno doverci riflettere e invece quella mattina zero. Il suo capo gli aveva detto: “Spicciati questo decreto sui rave deve stare sulla mia scrivania entro le 16, non un minuto più tardi”. Eppure, niente.

Si era laureato in legge col massimo dei voti. Veniva da una buona famiglia. Aveva fatto tutta la gavetta. Si era impegnato per arrivare lì a far parte della “squadra di governo”. Chissà perché poi la chiamavano così. Aveva scritto centinaia di documenti che poi avevano assunto il nome di qualcun altro ed erano diventati leggi. Di alcuni ne andava anche fiero.

Quella mattina però era bloccato e non riusciva a capire perché.

Lo sguardo gli cadde sul polsino della sua camicia. Era di un bianco candido e improvvisamente si ricordò di una notte di dieci anni prima. Anche allora portava una camicia bianca e stirata alla perfezione. Il suo coinquilino Davide lo aveva chiamato verso mezzanotte con la voce da fuori di testa: “Stefano sono ai magazzini lungo il fiume, vieni”. Scocciatissimo si era messo in macchina e aveva guidato venti minuti pensando continuamente a quanto fosse ridicolo abitare con uno come Davide. Sempre fuori, tanti amici, prendeva la vita sul momento invece di studiare come avrebbe dovuto per finire ingegneria.

Non si ricordava bene cosa fosse successo al suo arrivo ai magazzini si ricordava solo di quanto gli fosse apparsa fuori luogo la sua camicia bianca. Gli era rimasta in mente una vaga immagine di collane fluorescenti e una musica assordante.

Aveva trovato il suo amico in una bolgia infernale, non riusciva a reggersi in piedi e lui era stanco e lì c’era troppo rumore. Fu proprio mentre cercava di portare a spalla il suo coinquilino che la vide. Aveva una libellula tatuata sulla spalla e lui pensò che era il tatuaggio perfetto per lei: le braccia lunghe si muovevano perfettamente a tempo con la musica, era alta quasi quanto lui. “Bellissima” pensò e subito dopo: “Ma dai, sarà fatta di chissà cosa”. Mentre si pentiva di questo ultimo pensiero Davide gli scivolò dalla spalla e si schiantò a terra ridendo a crepapelle. “Ma cosa diavolo ci faccio qui? Ho lasciato Serena a casa sul divano. Domani dobbiamo andare a pranzo dai miei ed è già tardissimo. Poi partiamo per le vacanze estive: casa al mare della sua famiglia. È già tutto organizzato, tutto in ordine e invece guarda dove sono finito stasera!”. I suoi pensieri furono interrotti da una voce femminile un po’ roca che diceva: “ti serve aiuto con il tuo amico?”

Sollevò gli occhi dal polsino e si diresse senza neanche pensarci fuori dalla stanza. Spalancò con veemenza la porta dell’ufficio del capo e rimase lì in piedi in silenzio: “Hai già finito il decreto contro i rave?”, “Io mi licenzio!”. Senza sentire cosa stesse dicendo il capo dietro le sue spalle percorse i lunghi corridoi barcollando e uscì. Fuori lo accolse il sole di ottobre. Vagò per la città per un paio d’ore sulle gambe malferme chiedendosi se fosse stata una mossa geniale o fosse diventato completamente pazzo.

Alla fine, rientrò a casa. Le cose di lei erano sparse un po’ ovunque compreso il grosso zaino buttato nell’angolo. Una voce roca: “Ehi sei tornato! Mi dispiace se questa volta sono stata via così tanto, quasi tre mesi, ma c’erano troppe persone da vaccinare laggiù. Tu come stai?”. “Molto bene” rispose lui e baciò la sua libellula.

Gioia Piazzi

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Libellule al tempo delle camicie nere
Foto scattata da: Harrison Haines
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