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INSTAGRAM, MALATTIA MENTALE E LE SOLITE BUGIE

INSTAGRAM, MALATTIA MENTALE E LE SOLITE BUGIE

Lo scorso mese consultando una rivista on line per lavoro, mi ha incuriosita un titolo: Instagram, adolescenti e salute mentale (https://www.filodiritto.com/instagram-adolescenti-e-salute-mentale). Leggo l’incipit:  “Instagram è dannoso per la salute mentale dei giovani, soprattutto delle ragazze”. Sobbalzo. Ma che stanno dicendo?

Continuo a leggere: “Ragazze e ragazzi – e non solo – vengono bombardati da immagini di perfezione fisica e successo personale, che aumentano esponenzialmente insicurezza, sfiducia e disagio verso sé stessi. I disturbi psicologici che ne derivano sono ovvi quanto allarmanti: si va dai disordini alimentari ai pensieri suicidi (con percentuali molto alte tra i giovani americani e inglesi, oggetto degli studi di Facebook). Un dato da evidenziare – più in positivo che in negativo, in realtà – è che i giovani stessi si rendono conto del legame tra il proprio malessere e Instagram.

Sempre più incuriosita, mi chiedo dove vogliano andare a parare. C’è qualcosa che non mi torna. La mia perplessità non è tanto nel fatto che l’uso di un social possa contribuire ad amplificare un malessere, ma mi sembra quasi che stiano sostenendo che un social, in sé, può causare una malattia mentale. Perplessa, navigo anche tra i link riportati nell’articolo.

Tutto parte da un’inchiesta del «Wall Street Journal» del 14 settembre 2021, che ha pubblicato i risultati di una ricerca commissionata da Facebook riportata, tra gli altri, da un articolo pubblicato sul Il Sole 24 ore on-line (https://www.ilsole24ore.com/art/instagram-e-pericoloso-la-salute-mentale-ragazze-e-facebook-sa-AEtfIyi?refresh_ce=1). Si cita il caso di un’adolescente, Anastasia, che “ha sviluppato un disturbo alimentare e ha le idee chiare su cosa l’abbia ridotta in quelle condizioni: il suo tempo su Instagram.”. In alcune delle diapositive dello studio condotto da Facebook sarebbe indicato che “Il 32% delle ragazze adolescenti ha affermato che quando si sentivano male per il proprio corpo, Instagram le faceva sentire peggio” e che “Gli adolescenti incolpano Instagram per l’aumento del tasso di ansia e depressione. Questa reazione è stata spontanea e coerente in tutti i gruppi”. Si sostiene che questa consapevolezza avrebbe addirittura generato in alcuni degli adolescenti intervistati, con pensieri suicidi, “il desiderio di uccidersi su Instagram.”.

Sobbalzo di nuovo. Il “desiderio” di uccidersi? Intanto già non mi piacciono i termini usati per riportare questo studio: un pensiero suicida sarebbe un “desiderio”? senza pretesa di addentrarmi in discorsi medici, da persona comune, forse direi che è un gravissimo allarme di qualcosa che non va che è dietro a quel pensiero… Ma andiamo avanti: Anastasia avrebbe “le idee chiare” perché riconduce la sua patologia alimentare al suo tempo passato su Instagram? Ma stiamo scherzando? Sempre da persona comune, a me sembra che Anastasia e chi le va dietro le idee ce le abbiamo molto confuse: forse è il contrario, forse se non ci si riesce a sottrarre al modello di perfezione proposto dal media del momento o non si riesce a gestire la dinamica relazionale con i coetanei, sui social o anche altrove, a sottrarsi se diventa violenta, se insomma si “cade nella rete” qualunque essa sia, la rete è uno strumento amplificatore, non è certo la ragione per cui si cade.

Ritorno all’articolo su Filodiritto, che per dare anche una visione meno catastrofica del fenomeno dell’uso dei social, cita un articolo pubblicato sul sito dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Meyer di Firenze (https://www.meyer.it/index.php/newsletter/marzo-2020/3791-dispositivi-digitali-non-e-detto-che-meno-sia-meglio), dove si punta sul classico: i genitori non possono lasciare soli i figli nell’uso delle tecnologie. Qui si propone anche un utilissimo vademecum comportamentale, per concludere che “la parola chiave per i genitori e anche per gli insegnanti e gli operatori che interagiscono con ragazze e ragazzi è educare, seguendo gli stessi principi che sono alla base di una crescita sana e della convivenza civile sia offline che online”.

Pur un pochino rincuorata rispetto alle bugie americane, e non solo, delle malattie mentali causate dai social (e da Instagram in particolare), mi chiedo però: è davvero solo una questione comportamentale? Veramente basta seguire un vademecum di regole di comportamento e buon senso? Veramente le parole chiave sono solo “educare” e “convivenza civile”?

Per carità, necessarie, utilissime, ma ci vogliamo provare a dirlo meglio, con altre parole? Ci vogliamo provare a dire che la parola chiave è la relazione interumana? È accompagnare i bambini e gli adolescenti nella loro ricerca di identità, essere presenti non (solo) fisicamente, “sentire” le loro richieste di rapporto o di aiuto, “rispondere” alle loro domande silenziose e nascoste e confermargli così che sono intelligenti, che sanno comprendere e distinguere, che possono rifiutare e sottrarsi a dinamiche violente, ovunque siano, anche sui social? E ci vogliamo provare a dire che quando i ragazzi arrivano a quel livello sofferenza, a quell’angoscia che va oltre il normale e anche bellissimo struggimento e sconvolgimento che vive giornalmente ogni adolescente o pre-adolescente, se sono al limite o lo hanno già varcato, se noi buttiamo la “colpa” sui social abbiamo fallito e li condanniamo a non avere speranza di uscirne?

Perché non basta disattivare l’account per guarire. Serve cercare aiuto e trovare chi può rispondere. Li vogliamo aiutare a saperla questa cosa? O continuiamo a riempirli di bugie?

Luigia Lazzaro

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