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SPUNTI DI RIFLESSIONE SULL’ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività)

SPUNTI DI RIFLESSIONE SULL’ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività)
“Non c’è a questo mondo grande scoperta o progresso che tenga, fintanto che ci sarà anche un solo bambino triste”. (Albert Einstein)

Sono consapevole di addentrarmi in una strada insidiosa e molto delicata, ma come spero di fare sempre negli articoli di questo blog, tenterò di proporre alcune considerazioni sperando di spingere a riflessioni e confronti umani e professionali.

Sono convinta che chiunque scelga di lavorare con i bambini, che lo faccia da molto tempo o che si approcci soltanto più recentemente, abbia uno scopo comune: il benessere dei più piccoli e la loro salute. Fisica e psichica.

Le prime descrizioni di comportamenti associabili all’attuale sigla ADHD risalgono alla metà dell’800 dove lo psichiatra e scrittore tedesco Hoffmann descrisse in brevi racconti per bambini, di giovani irrequieti, disattenti e disobbedienti. Principalmente sembrava attribuire a questi comportamenti, problemi di origine educativa.

Nel 1902, il pediatra George Still descrive bambini con le stesse caratteristiche ma attribuisce a queste problematiche origini genetiche e non carenze di tipo educativo da parte del contesto circostante; parlò di un deficit nel controllo morale ed una eccessiva vivacità e distruttività.

Nella seconda edizione del testo di riferimento della psichiatria a livello mondiale, il DSM, questo disturbo fa il suo ingresso nel manuale con l’etichetta diagnostica di “Reazione Ipercinetica del Bambino”.

Il DSM III utilizzerà il termine diagnostico “Disturbo da deficit dell’Attenzione” che prevedeva due sottotipi: con o senza iperattività e un elenco di sintomi che associati e/o sommati tra loro definiscono il quadro. Il DSM IV non si discosterà molto dalla versione precedente ed includerà il deficit nei disturbi del comportamento i cui sintomi sono da rilevare prima dei sette anni di età.

Nel DSM V l’ADHD viene classificato come un disturbo del Neurosviluppo, come unica differenza dal manuale precedente (per quanto riguarda la diagnosi) la sintomatologia deve presentarsi prima dei dodici anni; criterio che vede aumentare notevolmente le diagnosi di ADHD.

Ci sono alcune differenze tra l’ ICD 10 (curato dall’OMS) e il DSM, in particolar modo sull’età della diagnosi e la combinazione dei sintomi per espletarla, ma entrambi concordano che per porre diagnosi i sintomi devono essere presenti almeno in due contesti differenti e compromettere la vita sociale e scolastica/lavorativa del soggetto.

La diagnosi è di tipo clinico e comprende nove segni e sintomi di disattenzione e nove di iperattività e impulsività.

Tra i sintomi troviamo:

Non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente, si distrae facilmente, ha difficoltà a giocare in attività tranquille, spesso risponde ancor prima che le domande siano completate, spesso interrompe o si comporta in maniera invadente, ecc..

La valutazione è di tipo clinico, si basa sull’osservazione dei comportamenti del bambino in più contesti; non esistono test diagnostici che consentano di identificare con certezza la presenza del disturbo e uno dei limiti dei questionari potrebbe essere rappresentato dalla soggettività di chi si trova a compilarli, ovvero genitori e insegnanti.

Prima ancora di effettuare una diagnosi il medico dovrebbe incoraggiare e raccomandare ai genitori il PTBM (Parent Training Behavior Management); questo strumento, definito come intervento primario, potrebbe essere utile per i genitori e aiutarli a valutare correttamente: “…aspettative di sviluppo adeguate all’età dei loro figli, comportamenti che rafforzano la relazione genitore-figlio, abilità di gestione di situazioni e/o comportamenti problematici…”

A seguito della diagnosi, i trattamenti proposti sono: La Terapia Comportamentale e La Terapia Farmacologica

 Il Trattamento psico-comportamentale, (adattato alle caratteristiche del soggetto in base all’età, ai sintomi, ai disturbi associati, alla situazione familiare/sociale e alle sue risorse cognitive) mira a favorire un adeguato adattamento del bambino all’interno dei vari contesti e migliorare la qualità delle relazioni all’ interno degli stessi, con l’obiettivo di rendere favorevole l’inserimento in ambiti scolastici/lavorativi; gestione e riconoscimento delle emozioni, capacità di valutare e risolvere problemi, sono solo alcuni esempi.

In questo trattamento è previsto il “Parent Training”, dove si forniscono ai genitori alcune informazioni sull’ ADHD e si suggeriscono strategie da adottare con il bambino nel caso di alcuni comportamenti; sono previsti inoltre incontri con gli insegnati per formarli ad osservare, comprendere/riconoscere, valutare e contenere eventuali comportamenti problematici.

Il Trattamento farmacologico prevede l’utilizzo di psicostimolanti (il metilfenidato in particolare) ed è prescritto dal neuropsichiatra infantile. Il farmaco, sconsigliato ai bambini con età inferiore ai 6 anni, è prescritto per migliorare la capacità di concentrazione e attenzione, riducendo al contempo i comportamenti impulsivi del soggetto. A volte vengono somministrati anche antidepressivi, antipsicotici e stabilizzatori dell’umore.

Alcuni studi sostengono l’utilizzo dei farmaci e riscontrano una riduzione dei sintomi e un conseguente miglioramento del rendimento scolastico e del comportamento in relazione ai coetanei e agli adulti di riferimento (genitori e insegnanti); altri studi ritengono che il trattamento farmacologico non sia ancora completamente chiaro e che questo miglioramento non sia attribuibile a tutti gli aspetti e, cosa ancora più importante, non sia chiaro l’effetto a lungo termine sull’organismo e le eventuali conseguenze sullo sviluppo psico-fisico.

Diverse e contrapposte le correnti di pensiero su questo argomento; esistono professionisti della salute che vedono nel farmaco l’unica soluzione, chi al farmaco associa terapie cognitivo comportamentali e chi sostiene che il farmaco sia assolutamente da evitare per i danni che esso stesso causa in modo irreversibile sullo sviluppo psico-fisico dei bambini.

Illustrato come il disturbo viene definito dai manuali diagnostici più diffusi, mi piacerebbe aprire la seconda parte di questo articolo con le parole delle Dott.sse A. Bembina e D. Della Putta che pongono la questione su un punto di vista molto interessante: “Nella storia del pensiero umano il bambino è stato visto solo come colui che non ha ancora ciò che caratterizza un essere umano. Infatti l’uomo possiede la stazione eretta, l’opponente del pollice, il linguaggio articolato e soprattutto il pensiero razionale, (..) il bambino era un “non uomo”, (..) “l’identità umana consiste soprattutto in una realtà psichica non cosciente capace di una profonda sensibilità nel rapporto interumano, capacità di -sentire- l’altro”.

Le autrici affermano infatti quanto sia fondamentale …” mettere in luce la realtà mentale del bambino che sembra scomparire tra le pagine di molti dei manuali epidemiologici e diagnostico-statistici, (..), è necessario basare le elaborazioni teoriche e le considerazioni diagnostiche su una prassi clinica intenta a cogliere il senso dei comportamenti manifesti all’interno delle relazioni in cui essi avvengono…”

Vorrei a questo punto fare insieme alcune riflessioni e porre alcune domande.

I bambini non sono “piccoli adulti”, sono bambini! Hanno un loro modo di comunicare che, prima ancora del linguaggio verbale, si esprime in differenti modi. Utilizzano il comportamento, è vero, ma queste manifestazioni originano in luoghi molto più profondi della superficie dove si manifestano.

L’espressione di un disagio, una difficoltà, un malessere, un senso di inadeguatezza, è diversa da quella di un adulto. Non sempre il loro stato emotivo è soltanto l’espressione del loro carattere o di una malattia; è il loro “sentire”, la loro sensibilità che non sa o non può esprimersi in altro modo.

Sappiamo bene, come affermato dalla psicologia e dalla pedagogia, che lo sviluppo cognitivo del bambino e quindi le capacità di apprendere, prestare attenzione, ricordare, provare interesse, sono strettamente legate agli aspetti emotivi e ai legami affettivi con gli adulti di riferimento. E allora perché, a volte, sembra che tutto ciò passi in secondo piano?

La prima difficoltà che pare evidente è che la vastissima bibliografia a disposizione sul tema spesso sia in contraddizione; inoltre il fatto stesso che i sintomi cambino da bambino a bambino, si modificano nel tempo, emergono in età e ambienti differenti fanno emergere alcuni quesiti, molti dei quali presenti tra le righe di questo articolo.

In assenza di dati scientifici e considerando come, rispettando i criteri del DSM, si fa diagnosi di ADHD (ovvero osservando il comportamento), perché ci occupiamo solo dei sintomi e non delle cause che li generano?

Perché si giustifica l’ipotesi genetica alla base del disturbo (perché magari un fratello o un genitore presentavano gli stessi sintomi) e non si tiene in considerazione dell’influenza che può avere l’ambiente circostante nel presentarsi di una certa sintomatologia? Un padre o un fratello non possono diventare un modello che influenza lo sviluppo di un bambino?

Inoltre trovo incongruente affermare che altre patologie possano esistere in comorbidità con l’ADHD e le stesse patologie vengano usate per fare diagnosi differenziale, come ad esempio: disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo della condotta.

Sono molte le possibilità che emergono discutendo, studiando e analizzando questo tema, ma sopra ogni cosa, in tutte le correnti di pensiero, quello che emerge prepotente è l’idea dell’incurabilità, il disturbo viene infatti definito “cronico”, termine che sta ad indicare una condizione che accompagnerà la persona per il resto della sua vita. Che vengano presi in considerazione motivi genetici o no, questi bambini sembrano predestinati ad essere “diversi” ed è così che vanno trattati, aiutati a comportarsi bene per rientrare nei canoni sociali della buona educazione. Alcuni però non la pensano così e si chiedono il perché. Anche alcuni genitori si interrogano sul perchè il proprio figlio reagisca in alcuni modi a scuola, in famiglia, di fronte ad alcune situazioni?

Dobbiamo certo preoccuparci del sintomo, (perché c’è, esiste) ma la pretesa è quella  di risalire alla causa. Laddove la scienza non ha ancora fornito dati certi e incontrovertibili è doveroso chiedersi il perché.

Siamo sicuri che è sul comportamento che dobbiamo focalizzare il nostro intervento? E che questo non sia solo la punta di un iceberg?

Alcuni approfondimenti degli ultimi tempi e la visione di un docu-film Di Stella Savino “ADHD-Rush hour”, che consiglio di vedere vivamente, mi hanno suggerito di scrivere quanto state leggendo. In questo documentario viene analizzato il rischio dell’assunzione dei farmaci (con testimonianze di genitori di bambini che li utilizzano e di adolescenti che ne fanno uso in modo autonomo); le domande che ci si pone in seguito sono lecite: Che danni creano i farmaci sui più piccoli? E qual è il rischio che in adolescenza creino una dipendenza?

Perché il sistema sanitario copre tutte le spese per un farmaco (anche molto costoso) ma non si preoccupa di garantire a chi ne ha necessità, le cure psicoterapiche e logopediche? E’ forse soltanto, un problema culturale? O ci sono altri interessi a me poco comprensibili?

Come sempre molte domande alle quali è urgente dare risposte.

Nelle ultime settimane il Consiglio regionale del Lazio, ha approvato la legge 11 agosto 2021, n.14 “Disposizioni collegate alla legge di stabilità regionale 2021 e modifiche di leggi regionali” che all’ art. 35 prevede l’impegno della Giunta della Regione Lazio ad approvare le “Linee guida regionali per la presa in carico di soggetti affetti da disturbo da deficit di attenzione e iperattività”. Le attendo con molto interesse.

Valeria Verna

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