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DIVERTIRSI DA MORIRE

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Appunti da un servizio per le dipendenze

Anche se la mia esperienza all’interno del Servizio per le Dipendenze Adolescenti è appena all’inizio, sono già molte le riflessioni che costantemente mi trovo a condividere con i colleghi, e sia che si tratti di psicologi, psichiatri o specialisti in tossicologia uno dei temi ricorrenti è di sicuro l’analisi della domanda: siamo sicuri che questo sia il posto giusto per questo ragazzo/ragazza?

Nonostante l’impegno gravoso che in molti si trovano ad affrontare infatti, più o meno tutti convergiamo nella comune idea che una delle problematiche più difficili all’interno dei servizi territoriali sia quello della disarticolazione dei servizi stessi, un diffuso difetto di comunicazione tra i professionisti della salute mentale che si trovano a dover prendere in carico i ragazzi che accedono ai rispettivi dipartimenti “solo” sulla base del problema che le famiglie o le autorità competenti chiedono loro di affrontare e risolvere, come se si trattasse di una sorta di aggiustamento, di una forma di correzione.

Spesso però l’utilizzo di sostanze, che sia o meno associato ai cosiddetti comportamenti devianti, non è che la parte visibile del problema, ed infatti insieme ai ragazzi vengono prese in carico anche le rispettive famiglie, a volte sature di una “tossicità” invisibile fatta magari di parole gentili o affettuose (le chiamo “carezze” verbali!) la cui inconsistenza però è talmente irritante da farti quasi star male, nemmeno fossero radioattive..

Personalmente ritengo che una prima distinzione riguardo la definizione del problema dovrebbe essere fatta sulla base della sua gravità, e che questo sia essenziale per poter procedere con il tentativo di comprensione e di risposta più adatti.

Chiunque sia capitato per i motivi più disparati in un Pronto soccorso infatti, saprà che la prima cosa che viene chiesta (e valutata) è la condizione del paziente in arrivo, la cosiddetta “triage” costituita dai 4 colori (bianco, verde, giallo e rosso) corrispondenti al grado di urgenza che il medico si trova a dover affrontare, così che i diversi interventi possano essere differiti o inviati ai reparti più adatti o meglio attrezzati.

Ecco, per le dipendenze degli adolescenti mi sembra che allo stato attuale non funzioni così.

Se di sicuro è stato utile istituire un servizio specifico per tale fascia di età la recente esclusione dai manuali diagnostici della distinzione tra le definizioni di “uso” e “abuso” ha contribuito ad allargare la platea a dismisura, con ragazzi inviati quando in realtà l’utilizzo è legato a forme esplorative o di appartenenza (o limitato a contesti specifici come le discoteche, dove è facile bere troppo o troppo in fretta) nelle quali gli affetti necessari alla salvaguardia di se e degli altri sono ben vivi e presenti, tanto che magari chi guida non beve..

Non si tratta di sottovalutare (o sottostimare) il problema, bensì di renderne maggiormente evidenti le differenze: in alcuni casi ai ragazzi ciò che servirebbe è un percorso di psicoterapia personale, in quanto l’utilizzo di sostanze è ancora solo secondario a problematiche evolutive che magari non riescono ad affrontare, mentre nei casi più gravi (di assuefazione, e quindi di dipendenza) è piuttosto la sostanza a “gestirli”, mettendoli spesso in guai seri, non solo con le forze dell’ordine.

Unificare le diverse espressioni del fenomeno con l’unico criterio dell’utilizzo o del grado di “recidiva” perciò non fa che svuotarlo di senso, come se il vissuto non fosse un aspetto saliente, fondamentale ad un primo tentativo di comprensione:

Un bicchiere di vino al giorno non farà un alcolista, ma bevuto al mattino magari prima di andare a scuola assume un valore completamente diverso..

Purtroppo però per alcune famiglie sembra più facile accettare che il figlio sia vittima delle cattive amicizie (o peggio, che abbia preso un brutto vizio!) che riflettere sull’eventualità che alla base possa esserci un disagio psicologico ben più profondo.

Sarà che il fenomeno non conosce livelli sociali, anzi li attraversa trasversalmente, ma l’immagine dei ragazzi dediti ad un uso reiterato delle sostanze per come spesso è stata mostrata ad esempio nei film o nelle serie tv non è assolutamente in grado di descrivere buona parte di quelli che incontro, tanto da farmi pensare che l’indicatore capace di misurare la severità del problema sia piuttosto “l’investimento” che ciascun ragazzo ripone nell’uso delle sostanze o nei comportamenti di “addiction” (dal latino “schiavo”) come il gioco d’azzardo, ossia cosa per lui rappresentano, compensano o addirittura sostituiscono, il che ovviamente è molto diverso a seconda delle fasce di età.

Al servizio infatti possono accedere ragazzi dai 14 ai 24 anni, e quando si decide di lavorare insieme, oltre ad essere divisi tra maschi e femmine, vengono costituiti gruppi sulla base dell’età e dei rispettivi impegni sociali: tendenzialmente cioè chi va ancora a scuola non viene inserito nel gruppo di chi l’ha lasciata o magari lavora.

Altra distinzione che ho potuto osservare è che sebbene il loro numero sia di molto inferiore (nell’ordine di 1 a 10) sono le ragazze a trovarsi nelle condizioni maggiormente severe, sia per la “pesantezza” della sostanza (cui spesso sono gravemente assuefatte) che per le modalità con le quali finiscono per tentare di procurarsela, senza contare le relazioni alle quali si accompagnano, il più delle volte molto violente.

Attualmente quelli con cui lavoro sono ragazzi intorno ai 20 anni (molti di loro frequentano il centro da 5/6 anni) e tutti hanno finito le scuole.

Se questo può forse indicare una loro minore “compromissione” di certo significa che per quanto incasinati possano essere stati quegli anni, nessuno di loro ha voluto rinunciare ad una forma di studio, di conoscenza, di rapporto con compagni e insegnanti, magari anche con uno solo di essi, e benché siano piuttosto diversi tra loro sono rimasto stupito da un aspetto comune: ciò che vorrebbero non è tanto lasciarsi alle spalle il passato, quanto tornare indietro nel tempo per provare a cambiarlo, come se in fondo sapessero che è lì che c’è qualcosa da sistemare..

Penso che la comunicazione e la rete sociale che ciascuno di noi può essere in grado di tessere quindi, che siano insegnanti, allenatori o famiglie, sarebbe capace non solo come è ovvio di intercettare ragazzi potenzialmente a rischio, ma soprattutto di costituire per loro uno specifico fattore di protezione.

Per concludere, ogni tanto qualche collega mi “rimprovera” di far durare troppo a lungo i colloqui (va be è vero, c’è sempre penuria di stanze libere dove mi trovo) e quando mi domandano cosa mai abbia da dirgli per tutto quel tempo non so mai bene cosa rispondere.

In linea di massima infatti passo la maggior parte del tempo ad ascoltare i ragazzi, e quella restante cercando di capire quel che hanno detto.

Sarà che le parole sono importanti, e che a volte per intenderci non abbiamo che quelle.

Marco Randisi

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Foto scattata da: Lisa
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