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BREVI CONSIDERAZIONI SULLA PROPOSTA TERAPEUTICA NEI SERVIZI PUBBLICI PER ADOLESCENTI 

BREVI CONSIDERAZIONI SULLA PROPOSTA TERAPEUTICA NEI SERVIZI PUBBLICI PER ADOLESCENTI 

In queste settimane in cui il tema della guerra è tornato drammaticamente di attualità anche nella civilissima Europa, leggendo gli articoli e le lettere sul Blog e provando a guardarmi un po’ in giro c’è stato un aspetto delle varie discussioni sulla geo-politica che mi ha fatto riflettere e da cui ho preso spunto per l’argomento da trattare oggi, quello dei confini.

Se una certa geografia è per così dire “data” dalla natura, forma del pianeta, conformazione dei continenti ecc, è stata la storia dell’essere umano e le sue scelte politiche che hanno disegnato il mappamondo per come oggi lo conosciamo, cioè posto (e imposto!) confini tutt’altro che naturali, territori e conquiste ottenute perlopiù a seguito di guerre e sopraffazioni.

I limiti e le linee quindi sono proprio fatti per dividere e separare, una cosa da un’altra se si tratta di spazio, il prima dal poi se si tratta del tempo, convenzioni magari utilissime come il meridiano di Greenwich o l’Equatore, o semplicemente curiose come la “linea” di Karman: posta idealmente a 100 km sul livello del mare, “segna” infatti il confine tra l’atmosfera terrestre e lo spazio per cui chi vola oltre quella quota non è più un aviatore bensì.. un astronauta.

Ma siamo sicuri che funzioni così anche con gli esseri umani?

La divisione tra i servizi della salute mentale dell’età evolutiva dedicato agli adolescenti, adotta per convenzione la fascia di età dai 12 ai 18 anni, in cui la presa in carico afferisce alla Neuropsichiatria Infantile, mentre al compimento della “maggiore età” i ragazzi passano in carico ai Servizi Psichiatrici per agli adulti (CSM)* e non è affatto un passaggio “scontato”, anzi tutt’altro, può essere delicato e non privo di conseguenze, specie quando non venga svolto con la necessaria sensibilità ed attenzione.

Ovviamente non mi riferisco al semplice cambio di sede, ma alla separazione dal clinico con il quale fino a quel momento i ragazzi si sono relazionati, lavorando insieme su crisi o momenti di rabbia e di odio, su rapporti nuovi e bellissimi o su rotture drammatiche, eventi comunque capaci di caratterizzare o compromettere lo sviluppo mentale in quella fascia d’età così difficile e fondamentale.

Qualcuno saprà, qualcun altro ricorda, quanto lunghi e complicati sanno essere quegli anni, quanti sconvolgimenti gli esseri umani attraversino in un periodo di vita in fondo così ristretto, e come certe esperienze possano essere in grado di lasciare segni molto profondi. 

E quindi, dopo i famosi 18?

Di norma i ragazzi vengono “preparati” per tempo a tale separazione ma, come è facile capire, non è solo un fatto materiale o di rapporto con il calendario, ma sono piuttosto i vissuti di delusione (se non di abbandono) che possono insinuarsi e provocare disastri, e che magari sono gli stessi che li hanno portati all’attenzione del clinico, soprattutto alla luce di quel che succede “dopo”..

Li attende infatti un ambiente specializzato per gli adulti che, al di là della preparazione di ognuno, sa poco o niente di loro, se non storia clinica diagnosi e terapia, e dove la presa in carico può consistere nel ripetere colloqui test e valutazioni, nonché nel raccontare di nuovo la propria storia di vita.

E che, ricominciamo da capo?

Ovviamente no, si spera bene che tutti i rapporti siano in qualche modo diversi, però nel caso specifico se una separazione così importante è vissuta come una costrizione, le nuove possibilità/responsabilità personali, come la scuola che “diventa” università, oppure lavoro, rischiano di apparire come ostacoli insormontabili, tappe difficili ed emozionanti quando un ragazzo sta bene (e ci sta se i suoi rapporti sono stati validi) possono risultare limiti invalicabili nei casi ai quali mi riferisco, perché quello che così si propone non è che un “continuum” o peggio, una ripetizione.

Soluzioni semplici e immediate non ce ne sono, di certo però la grande attenzione e gli interventi messi in campo sul tema non sembrano riflettersi in un reale miglioramento nella pratica clinica con i ragazzi, forse perché si fa un gran parlare di prevenzione (ed infatti l’età media della prima diagnosi si è ridotta) ma si continua a vederli e trattarli nella stessa maniera.

Insomma più che cercare di stravolgere i servizi sarebbe già tanto trovare una visione comune su questo, così che non si dia l’impressione di stare a trasferire una pratica, visto che non sono di certo la stanza o il reparto che fanno la cura (l’istituzione non è che il contesto dove si cerca di farla) bensì il rapporto con il terapeuta che in quel contesto lavora.

Altrimenti tanto vale dir loro che a curare è il camice e non il medico, il ruolo e non la persona, il contenitore (che infatti si offre di assistere e.. contenere) e non il suo contenuto.  

Se queste sono le convinzioni sballate che si cerca di affrontare per prime però, certi “passaggi-selvaggi” che mi capita di vedere non fanno altro che confermarle, con il rischio più che concreto che l’istituzione, oltre a delimitarla, diventi un limite per la terapia, e che si ponga/opponga alla richiesta di cambiamento con la rigidità della norma, cercando cioè di normalizzare e stabilizzare, cosa che in ambito psicologico può voler dire cronicizzare.

Insomma non si può essere “promossi per anzianità” se non nell’ottica di una “carriera” psichiatrica, che è proprio ciò che il paradigma della prevenzione dovrebbe cercare di scongiurare.

Se il fine di qualsiasi cura è la fine della cura stessa, far corrispondere (e mettere sullo stesso piano) il cambiamento d’età con quello del clinico ha senso in neonatologia o in pediatria o, come è logico, in geriatria, mentre interrompere un rapporto magari molto profondo con uno psicoterapeuta per “raggiunti limiti di età” è del tutto diverso dal concluderlo perché si sta finalmente bene.

Parlando di carne e di ossa sarebbe un po’ come cambiare il dentista che ci piace (vabbè si fa per dire) solo perché ci sono spuntati i denti del giudizio, mentre un passaggio così delicato dovrebbe corrispondere ad un movimento personale assai più profondo, maturato nell’ambito di quel rapporto così importante e non perché si è d’improvviso diventati.. maturi! 

Come dire, invecchiare è facile, è crescere che è complicato.

Se il grande lavoro degli adolescenti è infatti separarsi dalla famiglia, passare da rapporti “verticali e gerarchici” a rapporti “tra pari” fino alla sfida più complicata, quella con l’altro/a diversi da sé, è la necessità di non perdersi nulla di tutto ciò che è stata la vita di pensieri immagini e affetti che può fare la differenza, perché a diventare “grandi” così, con l’accetta, si rischia di tagliare via la radice dell’albero così che presto o tardi quello si secca..

Che poi è anche il senso di ogni vera separazione.

Riuscire a fare da soli quello che non avremmo mai pensato di poter fare da soli.

Marco Randisi

La specializzazione e i servizi di Neuropsichiatria “resistono” solo nell’ambito dell’età evolutiva, perché  Neurologia e Psichiatria sono state divise nel lontano 1976. Questo porta spesso a ricoverare nello stesso reparto sia ragazzi affetti da disturbi neurologici come epilessia o cerebropatie, spesso associate a disabilità intellettiva, sia ragazzi che soffrono invece di patologie mentali, come depressione, psicosi schizofreniche etc., che nulla hanno a che fare con la neurologia né con “l’organo cervello”. E’ mio personale parere che tale ambiguità non faccia che spaventare e confondere ragazzi e famiglie.

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Foto scattata da: Ben Mack
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